Con ricorso dinanzi al Consiglio di stato, una società impugnava la sentenza del T.A.R. Lombardia – sede di Milano, sez. II, n. 1207/2020, riproponendo la censura di primo grado, secondo cui le certificazioni di qualità facenti parte dell’offerta dell’aggiudicataria controinteressata non rispettavano l’obbligo di utilizzo della lingua italiana quale lingua ufficiale della procedura di gara. Le certificazioni in questione erano in lingua inglese – senza traduzione – e rilasciate da organismi non affiliati all’Ente Accredia. L’appellante, quindi, lamentava la mancata comminatoria di esclusione.
Il Collegio, esaminata la questione, ha osservato che né l’utilizzo della lingua inglese nelle certificazioni di qualità, né il fatto che le stesse fossero state rilasciate da organismi non affiliati ad Accredia giustificava l’esclusione dalla gara dell’aggiudicataria.
In particolare, con riguardo al primo profilo, il Collegio ha posto in rilievo che, in assenza di divieti puntuali, l’obbligo di utilizzo della lingua italiana previsto dalla normativa di gara non aveva portata tale da comportare, con l’automatismo preteso dall’appellante, l’esclusione del concorrente per avere incluso nella sua offerta un documento non in lingua italiana.
L’interesse sotteso alla regola dell’uso della lingua italiana, inteso come possibilità di valutare atti redatti nel loro originale in lingua estera, che imporrebbe una duplicazione documentale, attraverso il ricorso a traduzioni giurate, può essere supplito con la conoscenza personale della lingua inglese da parte dei componenti della commissione giudicatrice. Interessante notare, inoltre, come a tale riguardo il Collegio abbia ritenuto ragionevole l’inferenza probatoria con cui il T.A.R. ha confermato, nel caso di specie, la conoscenza della lingua straniera da parte della commissione, per via della circostanza obiettiva della sua diffusa conoscenza.