Ordinanza Consiglio di Stato, Sez. V, 25/11/2024, n. 9449. In materia di Project Financing, è stata rimessa alla Corte di giustizia dell’Ue la seguente questione pregiudiziale: “Se i principi di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, interpretati alla luce dei principi di proporzionalità, buona amministrazione ed efficienza, ostino alla disciplina nazionale della prelazione contenuta nell’art. 183, co. 15, D.lgs. 50/2016”
Con l’ordinanza in commento, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso alla Corte di giustizia dell’Unione europea la definizione della seguente questione pregiudiziale: “se i principi di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi di cui agli artt. 49 e 56 Tfue, nonché la direttiva n. 2014/23/UE, interpretati alla luce dei principi di proporzionalità, buona amministrazione ed efficienza, e l’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, per il caso in cui la Corte lo ritenga applicabile, osti alla disciplina nazionale della prelazione, contenuta nell’art. 183 comma 15 d.lgs. n. 50/2016”.
Innanzitutto, occorre rammentare che, ai sensi dell’articolo 267 del TFUE, la Corte di giustizia dell’Unione europea (in seguito anche “CGUE” o “Corte”) è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale (i) sull’interpretazione dei trattati e (ii) sulla validità e sull’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione.
La medesima disposizione stabilisce altresì che, qualora una delle questioni di cui ai punti sub (i) e sub (ii) sia sollevata innanzi a un organo giurisdizionale di uno Stato membro avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno, quest’ultimo – qualora la reputi indispensabile per la risoluzione della controversia pendente – è tenuto a rimetterne la definizione alla Corte.
Per quanto di interesse, l’art. 111 comma 8, Cost. dispone che “Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione”.
Pertanto, vista l’impossibilità di ricorrere in Cassazione avverso le pronunce del Consiglio di Stato se non per motivi attinenti alla giurisdizione, il giudice di appello amministrativo, in presenza di una questione tale da far sorgere un dubbio ragionevole sulla corretta interpretazione del diritto dell’Unione, è tenuto a rivolgersi alla Corte.
In conformità a quanto sopra, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha ritenuto di dover demandare alla CGUE di pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto eurounitario della clausola di prelazione contenuta nell’art. 183, comma 15 del D.lgs. 50/2016 che, nell’ambito di una procedura di project financing, attribuisce al proponente che non risulta aggiudicatario la facoltà di esercitare la clausola di prelazione e subentrare così nella posizione del primo graduato.
Occorre dunque delineare brevemente i tratti salienti di tale istituto (oggi disciplinato dall’art. 193 del D.Lgs. 36/2023).
Come noto, il project financing, disciplinato dall’art. 183 del D.lgs. 50/2016, configura un “modulo procedimentale” (più che una tipologia contrattuale vera e propria), volto a reperire proposte da parte di soggetti privati che si facciano interamente carico dei costi e del rischio di realizzazione e gestione di un’opera pubblica, con possibilità di remunerarsi degli investimenti sostenuti tramite lo sfruttamento dell’opera stessa, secondo lo schema tipico del partenariato pubblico-privato (anche “PPP”).
Invero, l’art. 183, comma 16 stabilisce che le proposte di project financing “possono riguardare, in alternativa alla concessione, tutti i contratti di partenariato pubblico privato”.
I contratti di PPP sono contratti a titolo oneroso con i quali è conferito all’operatore economico il compito di realizzare e gestire un’opera in cambio del suo sfruttamento economico, o di fornire un servizio, “con assunzione di rischio” (art. 3 lett. eee del D.lgs. 50/2016), in termini di rischio di costruzione, oltre che di rischio di disponibilità o di rischio di domanda (art. 180 comma 3).
In estrema sintesi, nei contratti di PPP alla parte privata spetta il compito di finanziare, realizzare e gestire il progetto, mentre alla parte pubblica quello di definire gli obiettivi e di verificarne l’attuazione.
Dunque, il project financing è una procedura avente ad oggetto l’affidamento di un contratto di PPP (quali ad esempio la concessione, il contratto EPC, il contratto di disponibilità, etc…), ossia di un contratto connotato dalla compartecipazione del privato al finanziamento, alla progettazione, nonché alla realizzazione e gestione di un’opera ovvero di un servizio di pubblica utilità, con l’allocazione in capo al privato di tutto, o parte, del rischio economico sotteso all’operazione.
Il procedimento di project financing si articola in due fasi.
La prima fase è volta a selezionare il progetto di pubblico interesse, a valutarne la fattibilità e ad individuare così il promotore. Tale fase non costituisce un modulo di confronto concorrenziale, bensì la sede in cui l’amministrazione definisce con il privato l’obiettivo di interesse pubblico da realizzare; La seconda fase prevede l’indizione di una gara ad evidenza pubblica sul progetto approvato, allo scopo di individuare il contraente cui affidarne i lavori di realizzazione.
Se il promotore non risulta aggiudicatario della gara (indetta a valle della selezione della proposta), può esercitare, ai sensi dell’art. 183, comma 15 del D.lgs. 50/2016, entro quindici giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione, il diritto di prelazione e divenire lui stesso aggiudicatario, se dichiara di impegnarsi ad adempiere alle obbligazioni contrattuali alle medesime condizioni offerte dall’aggiudicatario.
Se, invece, il promotore non risulta aggiudicatario, ma non esercita la prelazione ha diritto al pagamento, a carico dell’aggiudicatario, dell’importo delle spese per la predisposizione della proposta.
Ciò posto, la questione sottoposta al vaglio del Consiglio di Stato trae origine dal ricorso in appello presentato dalla Urban Vision avverso la sentenza del 29.1.2024 n. 196, con cui il TAR Milano ha affermato la legittimità dell’aggiudicazione disposta in favore del raggruppamento promotore che si è avvalso della clausola di prelazione, subentrando nella posizione della medesima Urban Vision (risultata aggiudicataria “in prima battuta”).
Investito della questione, il Collegio – vista l’astratta capacità della prelazione di ribaltare l’esito di una gara pubblica, in spregio ai principi di parità di trattamento e di apertura al mercato – si è interrogato circa la natura della clausola di prelazione e sulla compatibilità di quest’ultima con la direttiva n. 2014/23/UE e, più in generale, con il diritto eurounitario.
Si rammenta, a tal proposito, che le norme dell’Unione in materia di gare pubbliche hanno quale obiettivo principale “l’apertura ad una concorrenza non falsata in tutti gli Stati membri” (CGUE, 7.9.2021, C927/19), da intendersi quindi parte integrante del mercato interno ai sensi dell’art. 3 par. 3 TUE (protocollo n. 27 TFUE).
Nonostante la preminenza dei suddetti obiettivi, una normativa nazionale può comunque essere restrittiva della libertà di stabilimento e della libera prestazione di servizi, ma solo se risponde a esigenze imperative di interesse generale, qualora tale interesse non sia già tutelato da altre norme, se è idonea a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e se non va oltre quanto necessario per il suo raggiungimento.
Orbene, secondo il Collegio, la clausola di prelazione, seppur espressione della libertà di impresa garantita dall’art. 15 Carta di Nizza e attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale art. 118 Cost (configurando, invero, una modalità di cooperazione che può rendere più efficace la realizzazione degli interessi pubblici), potrebbe non risultare idonea a conseguire lo scopo perseguito, posto che quest’ultima è in grado di sovvertire l’esito di una procedura a evidenza pubblica, incidendo direttamente sui principi della massima apertura al mercato e della parità di trattamento.
A consolidare il dubbio sorto in seno al Collegio, il fatto che nella direttiva n. 2014/23/UE non viene mai richiamata, né disciplinata la clausola di prelazione.
Dunque, al fine di valutare la compatibilità della clausola di prelazione – posta a presidio della libertà di impresa che, a sua volta, assurge a libertà fondamentale in base all’art. 15 Carta di Nizza – con le altre previsioni di matrice unionale, il Collegio ha rimesso la questione alla CGUE affinché quest’ultima possa effettuare un bilanciamento rispetto alle contrapposte libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, oltreché con i principi di cui alla direttiva 2014/23/UE e con l’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE.
Invero, il Collegio ha rilevato che la disciplina italiana della prelazione contenuta nell’art. 183 comma 15 del d. lgs. 50/2016, seppur premia, e quindi promuove, l’iniziativa del privato che si assume l’onere di formulare una proposta senza potere conoscere in anticipo i rischi e l’esito della stessa, nondimeno:
“– garantisce l’aggiudicazione al promotore, anche se l’offerta migliore è stata presentata da altro candidato;
– per tale motivo non premia necessariamente il soggetto che ha presentato l’offerta preferibile per l’amministrazione, che, altrimenti, non si renderebbe necessario esercitare la prelazione;
– non delimita l’ambito di applicazione dell’istituto, richiedendo che l’oggetto del contratto in gara abbia caratteristiche volte a circoscrivere l’utilizzo dell’istituto, che non siano limitate alla tipologia di finanziamento e alla rispondenza all’interesse pubblico;
– non presuppone il carattere innovativo della proposta, in termini di caratteristica intrinseca dell’oggetto della proposta o di novità dello stesso rispetto alla precedente attività svolta dall’amministrazione;
– non richiede una trasparenza iniziale in ordine alla posizione privilegiata del promotore (…), posto che la prelazione è resa nota con l’avvio della gara successiva alla presentazione della proposta, mentre la posizione privilegiata trova causa in una condotta precedente a detta comunicazione;
– difetta di garanzie e moduli procedimentali in caso vi siano più promotori che presentano una proposta”.
Alla luce delle suesposte considerazioni, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha chiesto alla CGUE di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 267 TFUE, sulla compatibilità della clausola di prelazione prevista dall’art. 183, comma 15 del D.lgs. 50/2016 con il diritto dell’UE e con i principi di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi e con la direttiva n. 2014/23/UE, interpretati alla luce dei principi di proporzionalità, buona amministrazione ed efficienza, nonché l’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE (solo qualora ritenuto applicabile dalla Corte).